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La dissennata corsa alle fusioni e incorporazioni

Oltre mezzo secolo fa le nostre città, i nostri piccoli paesi pullulavano di piccoli esercizi commerciali e botteghe artigianali.  Tutti noi, nati nel primo o secondo decennio dal dopo guerra siamo stati mandati dalla mamma a prendere il latte. L’ortolano, il macellaio, il panettiere, l’alimentarista, il merciaio con i loro piccoli negozi caratterizzavano e rallegravano molte delle nostre strade dei nostri quartieri. Erano tutti nostri amici, con i quali ci si soffermava spesso a scambiare due chiacchiere, quasi appartenessero alla nostra famiglia. Oggi la piccola distribuzione, i laboratori artigianali, sono quasi del tutto spariti lasciando il posto ai supermercati, agli ipermercati, alle città mercato.  Un processo di concentrazione delle attività commerciali che ha investito anche i settori dell’industria e della finanza.

Nel corso degli ultimi 40-50 anni è prevalsa l’idea, o meglio la convinzione che una azienda grande sia più economicamente competitiva rispetto a più piccole realtà separate ed indipendenti.  Ecco spuntare le prime catene di distribuzione dei prodotti alimentari, che purtroppo non sono state il frutto della concentrazione di più attività commerciali locali ma da investitori estranei al settore che, avendo annusato l’affare, hanno cominciato a realizzare ampie aree commerciali, gli attuali ipermercati, buttando fuori dal mercato tutti i dettaglianti, ovvero tutti quei nostri vecchi amici. La logica commerciale era: se tratterò più pezzi di uno stesso prodotto, otterrò margini di sconto sempre più ampi, che mi consentiranno di praticare prezzi più bassi alla clientela. Una pratica commerciale che pian piano ha portato alla definitiva chiusura dei piccoli dettaglianti.

Nel settore bancario il processo è stato analogo, le banche a carattere nazionale hanno incorporato centinaia e centinaia di banche locali, diventando così dei colossi sempre più grandi, estendendo e ramificando la loro presenza in ogni angolo remoto del territorio.

Anche nel mondo dell’industria, fusioni e incorporazioni hanno dato vita ad aziende enormi.  Un esempio a caso Fiat, che negli ultimi vent’anni ha incorporato la Lancia, la Ferrari, l’Autobianchi, l’Alfa Romeo, tutte aziende indipendenti sul mercato per poi fondersi con la Chrysler.

La filosofia di base, valida  tutt’ora,  è che la concentrazione di più unità operative, di qualsiasi natura, riduce i costi di gestione, favorendo così, oltre che un eventuale miglioramento qualitativo del prodotto, o dei servizi resi, una riduzione dei costi generali.  Una regola economica questa che io condivido ma che pone una domanda seria: sino a che punto è vantaggioso procedere ad incorporazioni e fusioni? La risposta più ovvia sarebbe sino a quando sul mercato non ci sarà più nessun’altra azienda a contendere il mercato.  Essendo il regime di monopolio in buona parte dei paesi occidentali vietato, le grandi aziende hanno diversificato i loro interessi in diverse aree merceologiche. Si son venuti a creare società commerciali di grandi dimensioni che trovano più conveniente spartirsi le aree territoriali del mondo, evitando lo scontro diretto. E dato che questi colossi commerciali altri non sono che l’espressione di una finanza senza scrupoli, è chiaro che alla fine della giostra, la chiusura dei piccoli esercizi commerciali si è rivelata la solita fregatura per il consumatore finale. Non essendoci più una vera e propria concorrenza, quel vantaggio iniziale rappresentato da una riduzione dei prezzi, oggi si è vanificato, in quanto a determinare il prezzo di un prodotto non è più la presenza sul mercato di più competitori. La grande distribuzione determina i prezzi sulla base di politiche commerciali diverse da quelle a cui eravamo abituati, in quanto spesso in molte aree operano quasi in regime di monopolio.

La crisi di questi ultimi anni è stata determinata proprio da questo processo di scellerata quanto incontrollata concentrazione aziendale. Non possiamo però non tener conto anche dell’automatizzazione di molte attività gestionali, dove computer e macchinari sempre più sofisticati riescono a sostituire egregiamente il lavoro di decine e decine di lavoratori.

Paradossalmente le aziende diventando sempre più grandi, hanno proporzionalmente bisogno di meno personale. Il contenimento del costo della mano d’opera spesso è l’elemento più importante per la valutazione di una azienda. In periodi di crisi come quello che stiamo vivendo da alcuni anni, chi ha pagato le conseguenze maggiori è stato il settore della mano d’opera. Centinaia di migliaia di lavoratori hanno perso il lavoro ed altrettanti non riescono più ad entrare nel mondo lavorativo.

Lo stesso apparato burocratico dello stato ha iniziato a fare i conti con il debito pubblico che impone categoricamente la razionalizzazione delle funzioni dello stato e blocco del turnover. Chi va via in pensione non viene sostituito da nuove giovani leve.

Il tutto nel rispetto degli indici di redditività e produttività aziendale che sono diventati i due punti indiscutibilmente inderogabili, le cui risultanze determinano un futuro del mondo lavorativo.

Stando all’attuale situazione, le previsioni sul futuro lavorativo nonché economico non sembrano molto entusiastiche. Le regole che tutelavano i lavoratori nei decenni scorsi, consentendo una programmazione della propria vita a lunga scadenza è oramai solo un bel sogno.

Oggi dall’inganno si è passati alla beffa, spacciando contratti di lavoro a tempo indeterminato, con la consapevole convinzione che di indeterminato vi è solo il futuro lavorativo, fatto da saltuarietà discontinue e da retribuzioni sempre più orientate allo sfruttamento.

Di questa precarietà lavorativa la grande distribuzione, le grandi imprese ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia, sapendo di poter fare il bello ed il brutto tempo contando su centinaia di migliaia di disoccupati che pur di lavorare sarebbero disposti ad accettare condizioni retributivi e normative sempre più al ribasso.

Se poi a tutto ciò ci aggiungiamo anche il flusso migratorio ci si rende conto di come effettivamente saremo costretti a convivere il nostro futuro con appiattimento della ricchezza pro capite. Attenzione non è una distribuzione più ampia della ricchezza disponibile a più individui, in quanto l’incremento dei posti di lavoro non sarà proporzionale alla diminuita capacità reddituale. Il differenziale dell’appiattimento retributivo continuerà ad ingrossare le capacità finanziarie dei detentori del potere economico.

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