Oggi 14 agosto ricorre il sesto anniversario del crollo del Ponte Morandi
di Pompeo Maritati
Il crollo del Ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018 a Genova, è stato uno degli eventi più tragici nella storia recente dell’Italia. Questo disastro, che ha causato la morte di 43 persone, ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva del paese, alimentando un profondo senso di ingiustizia e di sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sei anni dopo quella terribile mattina, il processo legale che dovrebbe assicurare giustizia alle vittime e alle loro famiglie procede a rilento, suscitando timori che la prescrizione possa cancellare ogni responsabilità e trasformare questo crimine in un tragico incidente senza colpevoli. La lentezza del sistema giudiziario italiano, spesso inefficiente e gravato da procedure complesse e tempi dilatati, si è rivelata ancora una volta un ostacolo insormontabile per chi cerca giustizia.
Le lungaggini burocratiche, unite a un sistema legale che sembra favorire l’impunità dei potenti, hanno creato un contesto in cui la verità rischia di rimanere sepolta sotto una montagna di carte e scartoffie. Il rischio di prescrizione, un tema che aleggia come un’ombra oscura su questo processo, rappresenta la beffa più grande per le famiglie delle vittime, che vedono in questa eventualità non solo la mancata punizione dei responsabili, ma anche una seconda morte per i loro cari. L’intero iter giudiziario sembra essere ostaggio di un sistema che favorisce la dilazione e la complicazione, piuttosto che la ricerca della verità e l’attribuzione delle responsabilità.
La tragedia del Ponte Morandi non è stata solo il risultato di un cedimento strutturale, ma anche il frutto di anni di negligenze, di mancate manutenzioni e di scelte politiche ed economiche che hanno privilegiato il profitto a scapito della sicurezza. I documenti emersi durante le indagini hanno evidenziato come il ponte fosse in condizioni critiche da tempo. Questo quadro agghiacciante dipinge una realtà in cui la vita delle persone è stata sacrificata sull’altare del denaro e dell’interesse privato. Il processo, che avrebbe dovuto portare alla luce queste responsabilità e punire chi ha consentito che una tragedia di tale portata avvenisse, si sta trasformando in una farsa giudiziaria, in cui i giochi di potere e le influenze politiche sembrano prevalere sul bisogno di giustizia.
I responsabili della gestione del ponte, così come i funzionari pubblici che avrebbero dovuto vigilare sulla sua sicurezza, si trovano ancora oggi in una posizione di forza, protetti da un sistema che sembra essere fatto su misura per tutelare chi detiene il potere, piuttosto che i cittadini comuni. La classe politica, da parte sua, ha mostrato in questi anni una sostanziale indifferenza nei confronti della vicenda. Nonostante le promesse fatte all’indomani del crollo, quando i leader politici si affrettavano a dichiarare che sarebbe stata fatta giustizia, l’impegno concreto nel sostenere un rapido svolgimento del processo è venuto meno. Anzi, il caso del Ponte Morandi è diventato l’ennesimo esempio di come la politica italiana sia spesso più interessata a salvaguardare i propri interessi e quelli dei propri alleati piuttosto che a garantire l’applicazione della legge.
Il legame tra politica e affari, che in Italia è sempre stato forte, emerge in tutta la sua potenza in questa vicenda. A sei anni di distanza, il processo sembra avviarsi verso un binario morto, con udienze rimandate, perizie contestate e una continua dilazione dei tempi. Le famiglie delle vittime, che si aspettavano giustizia, sono costrette a vivere in un limbo di incertezza, mentre vedono allontanarsi sempre di più la possibilità di vedere riconosciuta la colpevolezza dei responsabili. Il rischio che la prescrizione intervenga a cancellare tutto è sempre più concreto, e rappresenterebbe una ferita insanabile per un paese che ha già subito un colpo durissimo con il crollo del ponte. Questo scenario sarebbe l’ennesima dimostrazione dell’inadeguatezza del sistema giudiziario italiano, che non riesce a garantire tempi certi e ragionevoli per la conclusione dei processi, specialmente quando in gioco ci sono questioni di grande rilevanza pubblica e morale.
Non si può fare a meno di notare come, in molti casi, la giustizia italiana sembri avere due pesi e due misure: da un lato, una durezza inflessibile nei confronti dei cittadini comuni, dall’altro, una sorprendente clemenza e una certa lentezza quando a essere coinvolti sono personaggi di spicco, politici o uomini d’affari. Questa disuguaglianza di trattamento mina alle fondamenta il principio stesso di uguaglianza davanti alla legge, uno dei pilastri su cui dovrebbe reggersi qualsiasi democrazia. Il caso del Ponte Morandi mette in luce anche un altro aspetto preoccupante del nostro sistema: la difficoltà di attribuire responsabilità in modo chiaro e netto. La complessità delle procedure, unita alla molteplicità degli attori coinvolti, rende spesso difficile individuare un colpevole preciso. Questo, se da un lato è comprensibile in un contesto così articolato, dall’altro apre la strada a un pericoloso relativismo, in cui tutto si confonde e alla fine nessuno paga realmente per le proprie azioni.
In un paese in cui la cultura della responsabilità è già debole, questo rischia di avere conseguenze devastanti. Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi non chiedono vendetta, ma giustizia. Vogliono che venga riconosciuto il diritto alla verità e che chi ha sbagliato paghi per le proprie colpe. È una richiesta legittima, che dovrebbe trovare ascolto e risposta in uno Stato che si definisce democratico e basato sul rispetto delle leggi. Eppure, a sei anni di distanza, questa richiesta sembra cadere nel vuoto, soffocata da un sistema che pare più interessato a proteggere se stesso e i suoi meccanismi piuttosto che a fare luce su una delle tragedie più gravi della nostra storia recente.
Il rischio che il caso del Ponte Morandi si concluda con un nulla di fatto, con una prescrizione che cancelli tutto, è un incubo che si fa sempre più reale. Questo non solo rappresenterebbe una sconfitta per la giustizia, ma anche un tradimento nei confronti di quelle 43 persone che hanno perso la vita in modo assurdo e ingiusto. Sarebbe un messaggio devastante per l’intero paese, un segnale che in Italia chi sbaglia, purché sufficientemente potente o ben collegato, può sempre sperare di farla franca. In un contesto del genere, come si può sperare di ricostruire la fiducia nelle istituzioni e nella giustizia?
La prescrizione, così come è concepita attualmente nel sistema legale italiano, rappresenta un’arma a doppio taglio. Se da un lato essa ha la funzione di garantire che i processi non si trascinino all’infinito e che i diritti degli imputati siano tutelati, dall’altro rischia di trasformarsi in uno strumento di impunità, soprattutto in casi complessi come quello del Ponte Morandi. Quando i processi si protraggono per anni, decenni, è inevitabile che la prescrizione diventi un’opzione sempre più concreta, soprattutto in un sistema giudiziario come quello italiano, afflitto da croniche inefficienze e da una burocrazia che rallenta ogni fase del procedimento. È evidente che in situazioni come queste, in cui sono in gioco vite umane e un’intera comunità è stata segnata da una tragedia, il meccanismo della prescrizione andrebbe rivisto o quantomeno sospeso, per permettere alla giustizia di fare il suo corso fino in fondo.
La frustrazione delle famiglie delle vittime è comprensibile e giustificata. Dopo sei anni, non solo non hanno ottenuto giustizia, ma vedono anche profilarsi all’orizzonte la possibilità che tutto venga cancellato da un cavillo legale, da un sistema che sembra fatto apposta per non funzionare, per non punire chi ha commesso degli errori gravissimi. Questo alimenta un senso di sfiducia non solo nei confronti della giustizia, ma dello Stato nel suo complesso. Un Stato che, in teoria, dovrebbe essere il garante dei diritti dei cittadini, ma che in pratica si dimostra spesso incapace di tutelare questi diritti, soprattutto quando in gioco ci sono interessi forti e potenti.
Il crollo del Ponte Morandi ha messo in luce molte delle contraddizioni e delle debolezze del sistema Italia. Ha mostrato come la gestione delle infrastrutture, un tema cruciale per la sicurezza e il benessere dei cittadini, sia spesso caratterizzata da superficialità, da una mancanza di visione a lungo termine e da una pericolosa commistione tra interessi pubblici e privati. Ma ha anche rivelato l’incapacità del sistema giudiziario di rispondere in modo tempestivo e efficace a eventi di questa portata, lasciando che le vittime e le loro famiglie siano ulteriormente vittimizzate da un processo che non arriva mai a una conclusione. In questo contesto, non si può fare a meno di chiedersi quale sia il ruolo dello Stato e delle istituzioni.
Se non sono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini, di punire chi mette a rischio vite umane per profitto o negligenza, quale fiducia possono ancora avere i cittadini in queste istituzioni? Il caso del Ponte Morandi rischia di diventare il simbolo di un fallimento più ampio, quello di un intero sistema che non funziona come dovrebbe, che non riesce a garantire giustizia e che si piega troppo spesso ai voleri dei potenti. La politica, che dovrebbe essere l’arte di governare per il bene comune, appare in questa vicenda come un gioco di potere in cui gli interessi dei cittadini vengono sistematicamente messi in secondo piano. Il silenzio o l’indifferenza di molti leader politici di fronte alla lentezza del processo e al rischio di prescrizione è sconcertante e dimostra quanto poco conti, in realtà, la giustizia per chi ha il potere.
Questo non solo è un tradimento nei confronti delle vittime e delle loro famiglie, ma anche un segnale pericoloso per l’intero paese. Se la politica non è in grado di garantire che la giustizia faccia il suo corso, quale speranza resta per i cittadini comuni? Il rischio è che si crei un clima di rassegnazione, in cui la sfiducia nelle istituzioni diventi la norma, in cui si accetti l’idea che in Italia la giustizia sia un lusso riservato a pochi. Questo sarebbe un disastro non solo per la democrazia, ma per il tessuto sociale del paese, già profondamente scosso da anni di crisi economica, di scandali e di malaffare. Il caso del Ponte Morandi dovrebbe essere un’occasione per riflettere seriamente su come riformare il sistema giudiziario, su come rendere la giustizia più efficiente, più rapida e più equa.
Non possiamo permettere che tragedie di questa portata restino senza colpevoli, non possiamo accettare che chi ha sbagliato non paghi. Questo non è solo una questione di giustizia per le vittime, ma di rispetto per la nostra umanità, per il valore della vita umana che, in un paese civile, dovrebbe essere sacro e inviolabile. Ma per fare questo, è necessario un cambiamento radicale, una presa di coscienza da parte di chi governa e di chi gestisce il sistema giudiziario. Non possiamo più permettere che la giustizia italiana sia vista come un’arma spuntata, incapace di colpire i potenti e di difendere i deboli.
Non possiamo più tollerare che la prescrizione diventi l’alibi per l’impunità di chi ha responsabilità gravi. La vicenda del Ponte Morandi è una ferita aperta che continuerà a sanguinare finché non verrà fatta giustizia, finché i responsabili non saranno chiamati a rispondere delle loro azioni davanti alla legge. Non possiamo permettere che questa ferita si infetti ulteriormente con la prescrizione, con l’ennesima dimostrazione che in Italia la giustizia è un concetto flessibile, piegato agli interessi di pochi. Se vogliamo che il nostro paese torni a essere un luogo in cui la giustizia è uguale per tutti, in cui la legge è davvero uguale per tutti, dobbiamo agire ora, dobbiamo pretendere che il processo per il crollo del Ponte Morandi si concluda in tempi certi e che nessuno possa sfuggire alle proprie responsabilità.
Solo così potremo restituire dignità alle vittime, solo così potremo ricostruire la fiducia in uno Stato che, altrimenti, rischia di diventare sempre più lontano dai suoi cittadini, sempre più incapace di difendere chi ha più bisogno di protezione. Solo così potremo evitare che il crollo del Ponte Morandi sia ricordato non solo come una tragedia umana, ma anche come un fallimento totale dello Stato e della giustizia, rappresentato dalla solita conclusione: “Tarallucci e vino per tutti”.