Mani nel mondo
Il mio Pensiero Libero

L’indifferenza che uccide: la resa silenziosa di fronte all’ingiustizia globale

Pompeo Maritati

In tempi passati, le piazze si riempivano di persone animate da un profondo senso di giustizia, pronte a lottare per i diritti, contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Oggi, nonostante viviamo in un’epoca caratterizzata da una comunicazione estremamente veloce e capillare, le persone sembrano essersi allontanate da questa partecipazione attiva e collettiva. Le immagini di sofferenza provenienti da ogni angolo del mondo passano sotto i nostri occhi ogni giorno, ma raramente scatenano una reazione di massa. Le piazze restano vuote, il malcontento è spesso espresso solo a parole o attraverso lo schermo di un dispositivo, con post sui social media o commenti su forum che difficilmente si traducono in azioni concrete. Questa apparente indifferenza, questo disimpegno, può essere visto come un segnale inquietante di un arretramento culturale, un ritorno a forme di egoismo e individualismo che sembravano essere state superate dalle lotte del secolo scorso.

Ma cosa ha portato a questa situazione? Perché oggi, nonostante la maggiore consapevolezza e la maggiore facilità di accesso all’informazione, la gente sembra non protestare più? In parte, questo fenomeno può essere attribuito a un senso di impotenza diffuso. Viviamo in un mondo globalizzato, dove le dinamiche politiche ed economiche sono estremamente complesse e interconnesse. Le persone, di fronte a queste complessità, possono sentirsi sopraffatte, incapaci di influenzare realmente le decisioni che contano. Inoltre, la frammentazione dell’informazione, spesso manipolata e filtrata da interessi economici e politici, contribuisce a creare una sensazione di disorientamento. Non è facile distinguere la verità dalle menzogne, le informazioni rilevanti da quelle irrilevanti, e questo porta molti a dubitare di tutto e di tutti, cadendo in una sorta di cinismo paralizzante. La disillusione verso le istituzioni e verso la politica gioca un ruolo fondamentale in questo contesto. Le promesse non mantenute, la corruzione dilagante e l’inefficienza delle strutture governative hanno minato la fiducia dei cittadini, che vedono nella protesta un esercizio inutile, destinato a non produrre cambiamenti reali. Questo sentimento di disillusione è spesso accompagnato da una forma di nichilismo, una visione del mondo in cui nulla sembra avere più valore o significato. Le persone, stanche di lottare per cause che appaiono perse in partenza, scelgono di ritirarsi nella loro sfera privata, cercando di proteggersi dalle brutture del mondo piuttosto che affrontarle.

Ma c’è anche un altro aspetto che non può essere ignorato: la crescente diffusione di atteggiamenti xenofobi e razzisti. In un’epoca in cui le migrazioni sono diventate un fenomeno globale, e in cui le differenze culturali sono più visibili che mai, molti preferiscono chiudersi in un guscio di indifferenza, rifiutando di riconoscere l’umanità nell’altro. Questo atteggiamento, che può sembrare solo una forma di difesa, è in realtà una manifestazione di paura e insicurezza, alimentata da una retorica politica sempre più divisiva e polarizzante. La paura del diverso, del nuovo, dell’ignoto, spinge le persone a voltarsi dall’altra parte, a ignorare le sofferenze altrui, a non voler vedere ciò che accade fuori dalla loro zona di comfort. Questa indifferenza è un terreno fertile per il razzismo e la xenofobia, che si alimentano della mancanza di empatia e di comprensione. Non si tratta solo di una questione di ignoranza, ma di un rifiuto consapevole di confrontarsi con la realtà, di accettare che la giustizia e i diritti umani sono universali e non selettivi. La tecnologia, se da un lato ha permesso una maggiore diffusione delle informazioni, dall’altro ha contribuito a creare una sorta di assuefazione alla sofferenza. Le immagini di guerre, carestie, violenze sono diventate parte della nostra quotidianità, al punto che non suscitano più lo stesso impatto emotivo di un tempo.

Questa esposizione continua a immagini di dolore e ingiustizia ha un effetto desensibilizzante, portando molte persone a considerare queste realtà come qualcosa di inevitabile, parte del normale ordine delle cose. In questo contesto, la protesta perde il suo significato, diventa un gesto vuoto, privo di efficacia. La stessa rapidità con cui le informazioni circolano, contribuisce a questo fenomeno: le notizie si susseguono a un ritmo frenetico, e ciò che oggi sembra essere di vitale importanza, domani sarà già dimenticato, sostituito da una nuova emergenza, un nuovo scandalo, una nuova crisi. La brevità dell’attenzione collettiva è un altro ostacolo alla mobilitazione di massa: le persone si stancano presto, perdono interesse, si lasciano distrarre da altre questioni. In questo panorama, il consumismo e la cultura dell’intrattenimento giocano un ruolo cruciale. La società odierna è sempre più orientata al consumo e alla ricerca del piacere immediato. Le persone sono continuamente sollecitate a soddisfare i propri desideri materiali, a inseguire il successo personale, a dedicarsi al proprio benessere individuale. Questo modello di vita non lascia spazio alla riflessione critica, alla partecipazione attiva, alla solidarietà verso chi soffre. Anzi, la solidarietà stessa viene spesso derisa o ridicolizzata, presentata come un’utopia ingenua, una perdita di tempo che non porta risultati concreti. L’individualismo esasperato, promosso da un sistema economico che premia la competizione e l’autoaffermazione, è una delle cause principali della mancanza di protesta.

Le persone sono portate a pensare che l’unico modo per sopravvivere e prosperare sia quello di occuparsi esclusivamente di sé stesse, ignorando le esigenze degli altri, e anzi, vedendo negli altri dei potenziali avversari, piuttosto che dei compagni di lotta. La solidarietà, che un tempo era il cemento delle rivoluzioni, è stata sostituita dall’egoismo e dalla paura. Anche l’educazione gioca un ruolo determinante in questo processo. In molte parti del mondo, i sistemi educativi non riescono a formare cittadini consapevoli e critici, ma piuttosto si limitano a preparare individui al mercato del lavoro, privandoli di quegli strumenti culturali necessari per comprendere la complessità del mondo e per agire di conseguenza. L’educazione civica, la storia, la filosofia, tutte quelle discipline che insegnano a pensare in modo critico e a sviluppare un senso di giustizia e responsabilità sociale, vengono sempre più marginalizzate a favore di un sapere tecnico e utilitaristico. Questo impoverimento culturale si riflette in una società che non solo è meno capace di protestare, ma che spesso non riesce nemmeno a percepire le ingiustizie come tali. Se a tutto questo aggiungiamo l’isolamento sociale crescente, alimentato anche dall’uso massiccio delle tecnologie digitali, il quadro diventa ancora più desolante. Le persone vivono sempre più spesso in bolle virtuali, circondate solo da coloro che condividono le loro stesse opinioni, senza mai confrontarsi con la diversità, con la complessità del mondo reale. Questo isolamento favorisce l’apatia e l’indifferenza, perché tutto ciò che non rientra nella nostra cerchia ristretta viene percepito come distante, irrilevante. La mancanza di contatto diretto con le realtà difficili, con le sofferenze altrui, impedisce lo sviluppo di un autentico senso di solidarietà. Le persone, chiuse nel loro mondo virtuale, perdono la capacità di empatizzare, di sentire come propria la sofferenza dell’altro, di mobilitarsi per cause che non toccano direttamente la loro vita quotidiana. Anche la paura del cambiamento contribuisce a questa passività. Le persone sono spaventate dall’idea di sconvolgere il loro stile di vita, anche quando questo stile di vita è costruito sulle ingiustizie.

Preferiscono chiudere gli occhi di fronte alle contraddizioni del mondo piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi. Questo atteggiamento di difesa del proprio benessere a scapito degli altri è un altro segno di arretratezza culturale, un ritorno a forme di pensiero primitive, basate sull’idea che la sopravvivenza e il benessere individuale siano più importanti della giustizia collettiva. La società contemporanea, in cui la competizione e il successo personale sono considerati i valori supremi, non lascia spazio a una visione del mondo in cui la solidarietà e la giustizia sociale abbiano un ruolo centrale. Anzi, queste idee vengono spesso ridicolizzate, presentate come utopie irrealizzabili, buone solo per i sognatori e i perdenti. Ma la realtà è che senza solidarietà, senza un impegno collettivo per la giustizia, non c’è futuro. Le ingiustizie che oggi ignoriamo si ritorceranno contro di noi, perché viviamo in un mondo interconnesso, in cui nessuno può realmente prosperare se non a scapito degli altri. La mancanza di protesta, di partecipazione attiva, è quindi un sintomo di una malattia profonda della nostra società, una malattia che rischia di portare alla distruzione di quei valori che sono alla base della convivenza civile.

Non possiamo permetterci di restare indifferenti di fronte alle sofferenze degli altri, perché la giustizia è un valore universale, che deve essere difeso a ogni costo. La protesta, la lotta per i diritti, non è solo un dovere morale, ma è anche l’unico modo per garantire un futuro di pace e prosperità per tutti. Dobbiamo ritrovare il coraggio di scendere in piazza, di alzare la voce, di non accettare l’ingiustizia come un fatto inevitabile. Solo così potremo costruire una società più giusta, più equa, più umana.