
Un viaggio tra musica e ricordi: gli Aphrodite’s Child nella mia vita
Gli Aphrodite’s Child sono un gruppo musicale che ha segnato un’epoca, lasciando tracce indelebili nel panorama musicale internazionale. Ricordarli mi riporta indietro a una sera lontana del 1963, quando, appena uragazzo, ebbi l’occasione di conoscere i membri di quella band che, ignari del successo che li attendeva, suonavano in un locale ad Atene, un piccolo posto che, se la memoria non mi tradisce, si chiamava “On the Rocks”. Era una di quelle serate che ti rimangono scolpite nella mente per dettagli che, al momento, non sembrano significativi, ma che poi assumono contorni vivi con il passare del tempo. I miei genitori, insieme ad alcuni loro amici, mi portarono in quel locale, probabilmente per godersi una serata diversa, lontano dalla quotidianità. Per me, adolescente curioso, fu come entrare in un mondo nuovo. La musica che riempiva il locale aveva un’energia particolare, una vibrazione che non avevo mai sentito prima, e ricordo ancora il suono caldo e potente che emanava dal palco, dove si esibivano quegli artisti. Tra di loro c’erano Demis Roussos e Vangelis Papathanassiou, nomi che all’epoca non significavano nulla, ma che sarebbero diventati leggenda.
Gli amici dei miei genitori si soffermarono a parlare con loro a lungo, probabilmente affascinati da quel gruppo così promettente, e io, incuriosito, rimasi a osservarli. Non immaginavo, ovviamente, che quella serata sarebbe diventata il primo capitolo di una storia personale che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Con il tempo, la mia passione per gli Aphrodite’s Child crebbe sempre di più, seguendo la loro evoluzione musicale, il loro passaggio da una band locale a un fenomeno internazionale. Quando nel 1968 pubblicarono “Rain and Tears”, basata sul Canone di Pachelbel, rimasi incantato. Quella melodia così semplice e struggente aveva un potere evocativo straordinario, e la voce di Demis Roussos sembrava venire da un altro mondo. Da quel momento in poi, li seguii con devozione, apprezzando ogni loro lavoro, da “End of the World” a “It’s Five O’Clock”, fino al capolavoro assoluto, “666”, un album concettuale che sfidava le convenzioni e che ancora oggi è considerato un pilastro del rock progressivo.
Il mio legame con loro non si fermò alla semplice ammirazione musicale. Nel 1989 mi trovavo a Roma per lavoro quando seppi che Vangelis avrebbe tenuto un concerto alle Terme di Caracalla. Non potevo assolutamente perdere l’occasione di vedere dal vivo uno degli artisti che avevano influenzato la mia vita. Quella sera, il cielo romano sembrava vibrare all’unisono con le note che scaturivano dalle mani di Vangelis. Era un’esperienza trascendente, un viaggio musicale che attraversava epoche e culture, un mix di elettronica, classica e suggestioni greche che rendevano ogni brano unico. Finito il concerto, però, sentii un desiderio irresistibile: volevo incontrarlo, ringraziarlo per tutto ciò che la sua musica aveva significato per me. Sapevo che sarebbe stato difficile, quasi impossibile, ma decisi di provarci comunque.
Con un piccolo stratagemma, decisi di spacciarmi per suo cugino, sostenendo di vivere a Roma e di volerlo salutare. Fu un rischio, lo ammetto, ma la fortuna mi sorrise. Riuscii a superare le barriere e a trovarmi faccia a faccia con lui. Quando gli raccontai di quella sera del lontano 1963 ad Atene, del locale “On the Rocks” e della loro esibizione, notai che Vangelis sembrava sorpreso. Mi disse chiaramente che non ricordava nulla di quell’episodio, ma ciò non mi scoraggiò. Parlare con lui, condividere quel frammento della mia vita che si intrecciava con la sua carriera, fu un’esperienza indimenticabile. Alla fine, con un sorriso caloroso, mi abbracciò e mi regalò alcuni suoi CD, un gesto semplice ma carico di significato.
Tornando in albergo quella sera, con i CD stretti in mano come fossero tesori, ripensai a quanto fosse straordinario il potere della musica. Non si tratta solo di note e parole, ma di emozioni, ricordi, connessioni umane che attraversano il tempo e lo spazio. Per me, gli Aphrodite’s Child rappresentano tutto questo. Non solo un gruppo musicale, ma una parte della mia storia personale, un filo invisibile che collega la mia giovinezza a momenti di pura gioia e meraviglia.
La carriera di Vangelis e Demis Roussos prese strade diverse dopo lo scioglimento del gruppo nel 1972, ma entrambi continuarono a brillare come stelle del firmamento musicale. Vangelis, con le sue colonne sonore epiche come “Blade Runner” e “Chariots of Fire”, divenne uno dei compositori più rispettati al mondo, mentre Demis, con la sua voce unica, conquistò il pubblico internazionale con successi come “Forever and Ever” e “My Friend the Wind”. Ogni volta che ascolto le loro canzoni, mi tornano in mente frammenti di quella sera ad Atene, le luci soffuse del locale, le voci che si intrecciavano con la musica, e l’entusiasmo di un giovane ragazzo che scopriva un nuovo mondo.
Forse la mia storia può sembrare banale, una semplice coincidenza che si è trasformata in un ricordo prezioso. Ma per me, gli Aphrodite’s Child non sono solo un gruppo musicale: rappresentano un pezzo della mia vita, un simbolo di quanto la musica possa influenzare le nostre esperienze e legarci a qualcosa di più grande. Quei momenti, dal 1963 ad Atene al 1989 a Roma, sono stati come capitoli di un romanzo personale, e ogni volta che riascolto le loro canzoni, sento che la storia continua. Anche oggi, tanti anni dopo, il loro suono mi accompagna, ricordandomi che, a volte, basta una melodia per riportare alla luce emozioni che pensavamo dimenticate. Gli Aphrodite’s Child e la loro musica sono, per me, un viaggio senza fine, un legame che non si spezzerà mai.

