Storia del Rosone della Basilica di Santa Croce di Tonio Rollo
E già, quando si parla o si ammira la Basilica di Santa Croce di Lecce a tutto si pensa, mai a quelle povere cinque facce nascoste tra gli intarsi del rosone. Sono dimenticate da tutti. Nessuno si ferma ad ammirarle. Quasi come se fossero state fatte oggetto di una sinistra maledizione: Ci sarete, ma nessuno vi vedrà!,sembra che abbia loro intimato qualcuno. Forse è stato quell’artista, il Penna, che costruendo il secondo ordine della Chiesa ha voluto inserire oltre alla sua firma (Cesare Penna di Lecce / scolpiva), nella parte superiore della cornice della statua di san Pier Celestino, anche il suo autoritratto. Ma che quel nasone sia proprio dell’architetto è una teoria di Nicola Vacca (in “Rinascenza salentina”, XI (1941), p. 202), che non mi sembra molto azzeccata dal momento che intorno al rosone non c’è solo una faccia, come pensava lui, ma ben cinque facce. Che abbia fatto un ritratto di famiglia in un esterno? Ma chiunque siano a noi non interessa; interessa solo che ci siano e siano segno di quella perfezione artistica che la nostra terra coltiva da sempre.
Ma prima di andare oltre cerchiamo di individuare questi amici nascosti. Per agevolare l’operazione ci serviremo del rosone come se fosse un comunissimo orologio e quindi la direzione verso cui guardare ci sarà indicata da fantastiche lancette che segnano l’ora.
Cominciamo da quella citata, la più grande, quella con il nasone, indicata come l’autoritratto di Cesare Penna. Immaginiamo che la lancetta delle ore indichi quasi le nove. Nel quadrato che circoscrive il fastoso rosone centrale, nell’estremità superiore di una vistosa foglia di acanto, si scorge più chiaro che mai il profilo di una figura rivolta nella direzione del Monastero dei Celestini.
Continuando in senso orario, alle ore dieci, molto più piccola, rivolta nella stessa direzione, c’è il volto corrucciato di un tipo barbuto, che sembra essersi pietrificato in un momento di arrabbiatura, mentre redarguiva qualcuno.
Il terzo figuro è alle ore undici, minacciato dalle zanne del leone di sinistra che sorregge lo scudo con il numero 16 (1646: la data della conclusione dei lavori del secondo ordine della Basilica, l’altra parte della data, 46, è scolpita nello scudo del leone di destra). Quasi avvolto dalla solita foglia di acanto, il nostro sembra che sia stato immortalato dallo scultore proprio mentre un serpente gli stava scendendo dalla fronte, ecco perché gli è stato messo vicino un bel grappolo di limoni, scolpiti nella corona che cerchia il rosone.
Il quarto, con magistrale simmetria, alle ore una, fronteggia serenamente il più nervoso secondo leone, quello con il 46, e sembra che pensi all’opportunità di bersagliare il felino con le pigne che gli sono vicine nella corona.
Per continuare il discorso della simmetria, ecco quella che può essere considerata una pecca. Alle ore due, alla fine della foglia che scende nella parte inferiore del leone, c’è una massa informe. Neanche la stessa foglia è stata modellata e scolpita secondo quella perfezione propria di tutta l’opera. Chi ci doveva andare in quel posto? Forse non c’è stato il tempo di fregiare qualcuno ? O il candidato si è vergognato di farsi riprendere? O forse non ha avuto il fegato di farsi guardare costantemente dal quel severo faccione da inquisitore che sta alle ore tre, simmetricamente al nasone. Stessa posizione e stesso naso. Il quinto è lì, con lo sguardo grave, con il nasone rivolto verso l’alto e con una lunga barba da monaco castigatore.
Saranno questi i nostri illustri, e spesso ignorati, personaggi che ci faranno da Cicerone o da Virgilio in questo fantastico e molto fantasioso viaggio nella storia della basilica. Abbiamo scelto loro perché ci sembrava simpatico pensare a quello scalpellino che si è divertito a nasconderli, a mo’ di occhio nascosto o, come diremmo noi oggi, a fare da Candid camera. Facciamo uno sforzo con la fantasia e personifichiamo per un po’ quelle pietre. In questo compito ci può essere utile anche il caldo di questi giorni. Cerchiamo di immaginare cosa potrebbero raccontare queste facce che guardano in ogni direzione possibile da quasi tre secoli e mezzo.
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Ma partiamo dal principio. Si pensi alla gratitudine che hanno provato nei confronti di quel re Carlo V che, conquistando il regno di Napoli a danno dei francesi (battaglia di Pavia, 1525), decise di rafforzare le città con nuove mura e bastioni. Fu nel 1549 che l’antica chiesetta e il monastero situati nel castello furono abbattuti, benché costruiti nel 1353 dal conte di Lecce e Duca di Atene, Gualtiero VI di Brienne. Era stato questo nobiluomo a chiamare a Lecce i monaci Celestini, della famiglia dei Benedettini, fondati da quel tal Pietro da Morrone, il quale, divenuto papa con il nome di Celestino V, fece per viltà il gran rifiuto (Inf. III, 60) e per questo da padre Dante scaraventato nell’inferno, anche se nel nostro santorale è ricordato come San Pier Celestino.
Oltre a questi diretti o indiretti promotori dell’opera avranno ringraziato tutti gli artisti leccesi che hanno progettato e scolpito quella strana pietra proveniente forse dalla fabbrica in quei di Campi. Avranno ringraziato il primo architetto che mise mano all’opera, Gabriele Ricciardi, detto anche Beli Licciardo, Francescantonio Zimbalo, che scolpì anche la fantastica cappella di San Francesco di Paola, antesignana opera a fumetti applicata all’agiografia, e il tabernacolo, svanito poi nel nulla. La fabbrica della parte inferiore della Chiesa fu terminata nel 1582 e per l’occasione il vescovo Annibale Saraceno celebrò una solenne Messa a questo “Templum hoc Deo, Crucis vexillo dicatum”, anche se nel 1606 fu abbellita la porta centrale con due coppie di colonne che rendevano immensa e stragrande l’allegrezza del popolo (1 Mac 4), come recita una lapide sulla stessa porta.
Il grazie più grande lo avranno fatto invece a quell’architetto che ha guidato la costruzione del loro affollatissimo habitat, il già citato Giulio Cesare Penna che con tanta e certosina, qui si potrebbe giustamente dirlo, pazienza ricamò e concluse il bellissimo secondo piano fino alla sua morte, calata a 46 anni; era il 1656. Che tristezza calò sui nostri amici da quel giorno, era morto il loro papà. Si immagini che il dolore non fu alleviato neanche dalla presenza di quella ventina di festanti putti che sopra di loro danzano, cantano e giocano continuamente, facendo un lungo trenino al ritmo del samba, mentre si passano quelle lettere (Dom Matteo Napo) che ricordano l’abate Matteo Napoletano che diede inizio alla costruzione del Monastero adiacente. Da notare che anche tra le foglie che celano le lettere sorrette dai paffuti puttini, sono più o meno visibili nella parte centrale, a destra e sinistra delle T, almeno due altre oscure faccia, incazzate nere per il frastuono dei piccini festaioli. Non a caso una delle due si è turata le orecchie con un guscio di una lumaca.C
Ma la gioia non è prerogativa dei putti, anzi. Ci assicurano i faccioni, che il fragore più devastante parte proprio dal rosone, dove la corona di foglie, limoni, melograni, pere, uva ed ogni ben di fruttivendolo, insieme con due file di angeli separati da un cerchio di fiori si scatenano in girotondi vorticosi da far girare la testa, ecco perché i nostri amici sono costretti a guardare ovunque, ma non al centro. Si scatenano in un ballo degno di quello delle posate e dei candelabri della Bella e la Bestia di Disneyana memoria. Favolosi!
I personaggi invece che sono meno graditi nelle loro discussioni sono i telamoni, quelli che sorreggono la balconata, perché stanno sempre a lamentarsi. Si lamentano di vedere le stelle per la fatica non solo il leone, il pegaso, l’orsa ma p erfino i gemelli, nonostante si nascondano sotto la lupa e stiano per tutto il tempo ad allattare. Allora che cosa dovrebbe dire il povero telamone africano che come uno schiavo deve fare da contro altare al vicino Ercole? Il loro lamentarsi è stato più forte del fulmine che cadde sul tempio nel 1731, secondo la versione del nasone di sinistra, o nel 1735, secondo l’inquisitore di destra. Quella volta, trai canti e balli degli uni e le lamentazioni e grida degli altri, nessuno si accorse che un fulmine era caduta nella parte posteriore e aveva distrutto quell’organo, grazie al quale s’ode il canto di grata e dilettevole musica, o con il quale il 3 maggio, giorno dell’Inventione della Croce, i monaci celebravano la solennissima festa con il superbo apparato e suavissima musica. !
Il dispiacere fu alleviato da un buon evento che ebbe come protagonista tutta la città di Lecce e il suo Sant’Oronzo. Fu in Santa Croce che i leccesi si ritrovarono per rendere grazie a Dio per essere scampati a lu terremotu ci faciu a binti de Frebbaru (1743). Infatti nuddu nde patiu per l’intercessione del Santo ca te celu uardau. Ecco perché Santu Ronzu, ci ricorda quello con il serpente, per tutti i fedeli di Lecce è da annoverare de li Santuni perché face razzie (grazie) e meraculi a megliuni.
Chi può dimenticare quei giorni. Come chi può dimenticare ciò che successe dal 1807 in poi. Ce ne ha fatto un resoconto quello delle pigne rammentandoci la soppressione degli ordini religiosi della famiglia di S. Bernardo e di S. Benedetto, tra cui i Celestini da parte di Giuseppe Bonaparte il 13 febbraio 1807.
Che tragedia per la nostra casa, continua pietrificato dal triste ricordo, mentre anche il leone del 46 non ruggisce più. Tutto andò a finire in malora. Non solo furono distrutti gli arredi che avevano abbellito tante sentite e devote celebrazioni, ma molto fu trafugato e disperso chissà dove. Da allora Santa Croce non fu più la Chiesa dalle tante reliquie. Ricordo che avevamo una collezione invidiabile perfino da parte del Boccaccio. Avevamo il legno della croce, ovviamente, la spina del Signore, i capelli della Maddalena, il Sangue di San Giovanni Battista, il dito di San Biagio, la Gola di San Cristofalo, un pezzo della vestitura di San Ludovico e, il top, il latte della Madonna. Tra le varie cose trafugate, meno male che almeno due altari non andarono persi ma portati nella chiesa di San Matteo per essere dedicati alla Madonna della Luce e alla Madonna della Pietà, mentre l’altare maggiore, bellissimo, fu portato in Cattedrale ed oggi fa corona all’Immacolata.
Ma, e qui ecco la caduta di una lacrima su quella pietra bruciata dal sole, come il volto di ogni salentino che si rispetti, il giorno più brutto che abbiamo vissuto è stato quando Ferdinando Cito, l’Intendente del Palazzo del Governo, lo chiamavano così il nostro Monastero, affidò la Chiesa a Mastro Francesco Rizzo che ne fece una scuderia. Nemmeno i cavalli credevano ai loro occhi, tanto che andando in giro per Lecce nitrivano agli altri che loro avevano un alloggio da Dio.
Meno male che poi, interviene il figuro delle ore 10, il 30 gennaio 1828 fu emesso un rescritto che ordinava il restauro, anche se solo per evitare che un giorno o l’altro ci trovassimo con il naso nel Chiostro del Palazzo del Governo.
Il resto è stato solo un lento salire la china. Nel tempo tanti onori sono piovuti addosso alla Chiesa di Santa Croce. Nel 1833 viene affidata all’Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini, che ne curò il restauro e il completamento di alcuni altari. Nel 1906, su suggerimento del Consiglio Superiore delle Belle Arti Il Governo del Re la innalzava all’onor e di Monum ento Nazionale e poi S. Pio X, papa, la fregiava del titolo di Basilica Minore.
Avremmo detto tutto se all’unisono tutti e i cinque figuri, cioè il nasone delle 9, il nervoso delle 10, quello del serpente sulla fronte delle 11, quello delle pigne dell’una e l’inquisitore delle 4, i puttini paffuti e festanti, gli angeli in girotondo, quello con la cozza in testa, l’africano, l’asiatico con i gemelli lamentosi, le costellazioni e con la straordinaria partecipazione dei Santi Pier Celestino e San Benedetto, sino a quel punto assorti in orante meditazione, non ci avessero ricordato che è dal 1918 che il Vescovo Trama la istituiva Parrocchia.
Ringraziamo per il suggerimento e mentre li salutiamo eccoli ritornare alla loro secolare calcarea impassibilità. Chissà quando potranno raccontarci qualche altra verosimile verità. Aspettiamo che si muova e parli qualche altro, come per esempio quello a sinistra nella cornice sul primo rosone inferiore che con le sue elefantesche orecchie ne avrà sentite delle belle. Chissà!
Cavallino, 3 luglio 1995
Tonio Rollo
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