Il PIL frena e franano le aspettative di una ripresa
Ancora una volta l’ottimistica euforia delle ultime settimane è stata gelata dai dati dell’ISTAT relativi al terzo trimestre 2015 che vede il PIL avanzare solo dello 0,2% con un incremento tendenziale annuo che potrebbe attestarsi a non più dello 0,7% un po’ lontano dalle previsioni governative.
Le manovre economiche varate dal governo e le pseudo riforme di un sistema Italia che non riesce ad uscire fuori sui soliti difetti, quali una elefantiaca burocrazia ed un sistema ancora troppo ancorato sul clientelismo e corruzione, sono servite, a mio parere a ben poco. Nonostante tutte le condizioni favorevoli di cui abbiamo goduto, tutte dipendenti da scelte di strategia economica e finanziaria rivenienti dai mercati esteri, il nostro sistema Italia non è stata capace di trarne le giuste opportunità. Gli sforzi della politica sono stati tutti indirizzati ad argomenti di scarso impatto produttivo per il paese. Le numerose e autorevoli indicazioni che ci rivenivano dai mercati mondiali sono state tutte sottovalutate, avendo stupidamente ritenuto che la diminuzione dello spread dei nostri titoli pubblici, rispetto a quelli tedeschi era rappresentativo di credibilità politica ed economica. Il nostro governo non ha capito o meglio ha sottovalutato o fatto finta di non capire, che i mercati finanziari avevano finalmente aperto una linea di credito in bianco all’Italia, ritenendo a ragione, che se si fossero applicate le giuste riforme, quelle atte a favorire lo sviluppo della media e piccola industria in particolare, avrebbe ciò reso più sicuro il loro investimento.
Dopo un anno e mezzo del governo Renzi, l’Italia continua ad essere il fanalino di coda dei membri dell’Unione Europea e a quanto pare la crescita di quest’ultimi è sempre più ampia rispetto alle ipotizzate aspettative italiane. L’impressione che hanno i mercati internazioni è che in Italia si sia persa la capacità di saper governare in sinergia, ovvero progettare con una metodologia condivisa, dove i ministeri cardini dello sviluppo sappiano coordinarsi attraverso la ricerca e la pianificazioni ad ampio respiro, smettendola con il vecchio sistema del tappabuchi, che otturatone uno se ne aprivano due.
Forse il male peggiore del sistema Italia sta proprio qui, nel non saper fare squadra mirando ad un obiettivo condiviso. La politica, quella ideologica, ha da tempo abdicato agli interessi di natura privatistica, ha sciaguratamente spostato l’asse della gestione dei servizi pubblici per il cittadino, al settore privato. Quando si continuano a tagliare i fondi alla sanità senza mai procedere ad un credibile piano di rientro dagli sprechi, ponendo seri argini al clientelismo, si ha la sensazione, anzi la convinzione che ci sia la precisa volontà di questo governo di spostare i servizi sanitari dal pubblico al privato, favorendo quest’ultimi a scapito delle fasce più deboli della popolazione, già vessate da ticket e balzelli da medio evo. Un sistema scolastico che si vuole rinnovare lo si fa attraverso investimenti non per abbellire le scuole, la scuola non deve essere bella, la scuola deve essere la fucina delle classi dirigenti di domani, con personale docente adeguato di conoscenza e professionalità al passo con l’esigenze dei nuovi mercati, delle nuove tecnologie. Una scuola dove l’insegnante possa recuperare finalmente il suo vero ruolo, cardine indispensabile se non addirittura unico per poter progettare una società migliore ed economicamente più competitiva. Oggi invece la trovata più intelligente è quella di far diventare i Presidi gli sceriffi del sistema scolastico. Se poi ci addentriamo nella riforma del lavoro, un chiaro ed inequivocabile passo in dietro nel passato remoto, peraltro vestito dall’ipocrita definizione di “contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Forse una definizione così falsa non è riscontrabile in tutta la storia dell’Italia a partire dal risorgimento. Se consenti al datore di lavoro, unilateralmente ed insindacabilmente la possibilità, in qualsiasi momento del rapporto lavorativo in essere, di licenziare il dipendente, risarcendolo con un esiguo numero di mensilità, ditemi voi se questo è giusto chiamarlo contratto di lavoro a tempo indeterminato. Una flessibilità in entrata ed in uscita era da più parti richiesta quale elemento indispensabile per far ripartire l’economia. Una riforma che ha avuto un solo pregio quello di favorire le aziende che hanno subito approfittato degli incentivi alquanto rilevanti. Solo che, intelligentemente, hanno sostituito i vecchi contratti con il nuovo, percependo così gli incentivi statali. Motivo per cui l’occupazione non è diminuita mentre il debito pubblico è aumentato. Il Jobs Act purtroppo non ha prodotto sviluppo, per me ha generato solo ulteriori costi a carico della collettività. Gli stessi contributi percepiti dai datori di lavoro non sono nemmeno serviti a favorire un maggior sviluppo produttivo, cosa questa che evidenzia la scarsa propensione e fiducia del sistema produttivo italiano a investire e a credere nel futuro. Il Governo, i suoi ministri, avrebbero dovuto già da tempo capire che la legiferazione scoordinata, approssimata e spesso con finalità pubbliche e private poco chiare, avrebbe ulteriormente esposto il nostro paese alle ondate speculative della finanza.
E’ chiaro che di fronte a certe scelte, come quelle di elevare l’utilizzo del contante a tremila euro, giustificandolo con il fatto “così fan tutti” depongano poco favorevolmente sulla capacità governativa di questo nostro paese. Di tutto ciò i mercati ne tengono conto,
Di Pompeo Maritati