La montagna del debito pubblico USA supera la vetta dei 22.000 miliardi di dollari.
Italia, Grecia e Portogallo sono in ottima compagnia
Dell’attuale situazione economica interna agli USA, stranamente da noi, non se ne parla e laddove accennata, viene fatto in termini di sottovalutazione, come se ancora fossimo rimasti succubi e infatuati dalla grande potenza commerciale americana.
Definire oggi questa grande potenza, un grande colosso d’argilla, non pensa si faccia torto ai nostri amici americani, anzi faremo loro un favore in quanto evidenzieremo una situazione di indebitamento che non so per quanto tempo ancora potrà essere sostenibile.
Il debito pubblico americano si è oramai attestato sui 22.000,00 miliardi di dollari. E’ da numerosi anni che il suo debito cresce in percentuali maggiori del PIL. Lo scorso anno il PIL è cresciuto, tenuto conto di tutte le poste anche finanziarie, quasi del 4%, mentre il suo deficit faceva segnare un +6%. E come sono solito dire: scusate se è poco.
Il debito pubblico USA nell’immediato dopo guerra si attestò al 120% del PIL, a seguito delle spese belliche, per poi scendere negli anni 70 a poco più del 30%, dovuta in particolare dalla crescita economica che in quei due decenni non è mai stata al di sotto del 4% annuo, nonostante il peso economico derivato da ben due guerre: Corea e Vietnam.
Con la presidenza Reagan il debito pubblico schizzò a oltre il 50%. Rientrò modestamente con la presidenza Clinton. Bush Junior portò il debito al 60% per fronteggiare l’ondata di terrorismo culminato con l’11 settembre. Ma stranamente colui che ha dato una forte spallata al debito pubblico, fu Obama con le due presidenze, e non certo per motivi attinenti il contrasto del terrorismo o di nuovi interventi bellici in giro per il mondo.
L’ulteriore incremento del debito pari a 9.300 miliardi, senza precedenti in un periodo di pace, fu legato alla scelta di Barak Obama di contenere la devastante crisi finanziaria, determinata dal fallimento di Lehman Brothers, facendo ricorso a un prolungato e massiccio uso del “quantitative easing”, quello poi posto in essere da Draghi dalla Banca Centrale Europea, ancora in corso. Operazione che per certi versi potremo ritenere riuscita, ma al prezzo di un aumento dal 65% a oltre il 100% del debito totale rispetto al Pil.
Oggi questa mostruosa massa di debito pubblico è detenuta per il 32% da investitori esteri per lo più stati sovrani come Cina e Giappone, rispettivamente per 1250 e 1243 miliardi di dollari. Facendo alcuni semplici calcoli rileviamo che ogni cittadino americano è indebitato per oltre 62.000 dollari, se poi il raffronto lo facciamo sul numero dei contribuenti, l’importo sale a 167.000$.
Ulteriore preoccupazione di questo immenso debito pubblico deriva dal fronte interno, essendo questo detenuto per oltre 2800 miliardi dal Social Security Trust Fund, ovvero il più grande fondo pensionistico americano, che sta attraversando un periodo non molto tranquillo per via delle numerose uscite e dalle sempre più ridotte entrate. Elemento questo che farebbe presupporre in presenza di andamento costante, ad un eventuale preoccupante smobilizzo del debito detenuto con risvolti sulla tenuta della moneta verde.
Nonostante le politiche commerciali scellerate di Trump, i detentori del debito pubblico USA devono evitare tracolli del dollaro, e rispondere in termini di relativa attenzione all’applicazione dei dazi. L’interconnessione dei debiti pubblici dei vari stati più indebitati, attualmente non consentono spazi di manovra, dovendo ogni creditore tutelare il proprio credito, peraltro generalmente costituto da decine se non centinaia di miliardi, che se posti in pericolo, potrebbero ingenerare crisi all’interno di quei paesi.
Il problema oggi è la gestibilità della politica di Trump che pare volersi attenere al suo programma di governo promesso in campagna elettorale, che prevede uno sforzo finanziario enorme che, in assenza di contro misure idonee, farebbe prevedere nel breve periodo il raggiungimento e superamento della soglia dei 25.000 miliardi di dollari al debito pubblico, salvo non ponga in essere una perfida politica di tagli al comparto sociale, unico punto positivo (parziale) della presidenza Obama.
Oramai le strategie economiche collaudate in questi ultimi due/tre decenni si basano sul Quantitative Easing, ovvero l’immissione sul mercato da parte delle banche centrali di vera e propria carta straccia e progressiva riduzione degli interventi pubblici in ambito sociale, il tutto per favorire, sostenere e non sarebbe sbagliato asserire, anche nascondere, gli errori della grande lobbie della finanza.
Ultimo eclatante paradosso è che il popolo americano ha votato Trump non perché credeva nell’uomo politico, ma perché troppo deluso e mortificato dalle precedenti amministrazioni. Adesso si ritrova con Presidente che probabilmente li porterà alle condizioni sociali di prima della seconda guerra mondiale, non avendo capito che forse ci vorrebbe lo stesso coraggio di Obama in senso inverso, non quello di aver fatto incrementare il debito pubblico di oltre 9000 miliardi per salvare le banche e banchieri, ma questa volta investire queste ingenti risorse per favorire la crescita sociale e non quella della lobbie della finanza.