Economia

I Paradisi Fiscali

Quando le leggi di uno stato non sono adeguatamente regolamentate, prestano il fianco ad essere eluse, raggirate. Ma quello che più di ogni cosa fa rabbia è che nonostante la consapevolezza di alcuni fenomeni perversi, irregolari, nulla o molto poco si fa in termini politici per porvi la cosiddetta toppa di rimedio.  La determinazione della volontà della politica internazionale nel voler affrontare questo problema di non poco conto, cozza con lo strapotere delle lobbies, che in questa circostanza non sono sole quelle della finanza. Un piccolo ma importante passo avanti è stato fatto nel 2014 che ha eliminato il “segreto bancario” e promosso lo scambio di informazioni finanziarie fra i governi di 52 paesi[1] che diventeranno 92 entro il 2018.  Gli affari, soprattutto in ambito della globalizzazione, posti in essere nella penombra, riguardano bene o male tutti i settori, dalla produzione delle armi ai farmaceutici, dalle derrate alimentari ai prodotti energetici. Da non trascurare quella marginale operatività riconducibile a soggetti privati, cittadini che avendo frodato il fisco, o intascato tangenti, trovano sostegno alla loro attività criminale proprio da questi paradisi fiscali.

Esiste una classificazione dei paesi inseriti nella black list, in base alla tipologia di tassazione o regime adottato, il tutto rigorosamente in inglese:

  1. Pure Tax Haven: non ci sono tasse e garantisce l’assoluto segreto bancario anche con altri stati;
  2. No taxation on foreign income: sono esclusi da ogni tassazione i redditi esterni, e si tassa solo il reddito interno;
  3. Low taxation: tassazione modesta su qualunque reddito;
  4. Special Taxation: paesi con regimi fiscale simile a quello dei paesi considerati normali ma che permettono la costituzione di società flessibili.

I paradisi fiscali e finanziari sono l’alleato perfetto del sistema bancario ombra che è cresciuto in modo abnorme parallelamente alla liberalizzazione delle banche e dei servizi finanziari, che tutti vorrebbero combattere senza poi far nulla. Tutti sanno dove sono ma se ne guardano bene dal combatterli seriamente. Il mercato finanziario ombra è rappresentato da quel complesso di mercati, istituzioni e intermediari, che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione. In particolare tale attività è svolta mediante la raccolta di fondi in forme diverse da quella delle operazioni di deposito e, quindi, non sottoposte alle restrizioni ed ai limiti imposti dalla regolamentazione e dalla vigilanza. Alla fine del 2015, ben 149mila miliardi di dollari, pari a circa il 46 per cento delle attività finanziarie globali, erano gestiti da banche ombra. Lo sostiene  un rapporto pubblicato il 10 maggio dal Financial stability board (Fsb), un organismo internazionale legato ai paesi del G20 che sorveglia il sistema finanziario mondiale e che dal 2011 pubblica ogni anno uno studio sulla finanza ombra, con l’obiettivo di individuare i rischi che potrebbero far scoppiare una nuova crisi. Se facciamo riferimento al solo PIL annuale del mondo attestatosi a circa 60.000 miliardi di dollari, ci rendiamo immediatamente conto delle dimensioni preoccupanti del fenomeno.

Grazie a queste oasi di pace finanziaria è possibile evadere o eludere le tasse, riciclare denaro proveniente da attività illegali o criminali, non rispettare obblighi di Convenzioni internazionali. Paradossale ma vero è che l’operatività posta in essere da questi paradisi fiscali è resa a sua volta possibile da tutto quel sistema che non è configurabile quale “irregolare” ma collaterale e indispensabile, divenendone il principale veicolo.  Nei Paesi noti come paradisi fiscali transita virtualmente oltre il 50% del commercio mondiale, a fronte di una loro ricchezza prodotta che effettivamente non raggiunge il 3% del PIL mondiale. Ogni territorio identificato quale paradiso fiscale, ha una propria specializzazione. Consente poche operazioni preoccupandosi di occupare una precisa nicchia del mercato, favorendo   l’evasione fiscale, dell’aggiramento delle normative, tutelando riservatezza e segretezza. Per meglio comprendere il fenomeno cito le piccole isole nel Canale della Manica che sono, a livello cartaceo, i primi esportatori di banane nell’Unione Europea. Londra viene annoverata tra i paradisi fiscali, per le operazioni finanziarie e la Svizzera per la tutela del segreto bancario.

Nelle Isole Vergini britanniche erano registrate nel 2005 oltre 800.000 imprese, trenta per ogni abitante, con un ritmo di crescita di 60.000 nuove ogni anno. E cosa dire della Liberia, uno dei paesi più poveri dell’Africa, che ha la più grande flotta di petroliere al mondo, in quanto non ha ratificato la convenzione internazionale che obbliga il doppio scafo per le petroliere per limitare i danni di inquinamento in caso di incidenti, quindi le imprese del settore registrano in Liberia le navi che non soddisfano i requisiti previsti dalla normativa internazionale. Come abbiamo visto per meri interessi di natura finanziaria, aree del mondo, a volte anche evolute, attraverso una legislazione “aperta e consenziente” incentivano l’occultamento di ingenti masse di liquidità monetaria, frutto di attività illegali nei loro paesi di origine.

Una riflessione è d’obbligo, peraltro già accennata in precedenza, se aldilà di quella miserevole parte di denaro che si può materialmente esportare nel rispetto delle regole, cosa oramai poco remunerabile, le ingenti somme arrivano nella banche e istituzioni finanziarie dei paradisi fiscali attraverso il regolare sistema bancario. Quindi affermare che il sistema di vigilanza bancaria, e i controlli in genere sono ancora da migliorare non è una falsità gratuita. 


[1] L’accordo ha assunto notevole importanza in quanto aderirono la Svizzera e Singapore, che rappresentano per importanza la quarta e la quinta piazza finanziaria del mondo.

di Pompeo Maritati

Tratto dal libro “Il potere della finanza e la sua autonomia morale”.