Kallí Pólis, la leggenda della città bella
Il suo nome era conosciuto in tutta la Grecia e l’Asia Minore. Ovunque andasse era rispettato e temuto. La sua fama era quella di un bruto, di un violento, che uccideva ormai per abitudine più che per necessità.
La sua spada, unica fedele compagna di vita, aveva trapassato numerosi corpi impregnansosi del sangue di coloro che nella mente del loro assassino avevano un volto, una storia, ma non un nome che valesse la pena ricordare. Il principe che la impugnava non ricordava, ormai quasi più, cosa volesse dire avvertire quel brivido che ti percorre dalla testa ai piedi nel momento in cui si pone fine ad una vita. Era diventata una routine, una reazione del tutto automatica e priva di una reale motivazione.
Vite spezzate, amori infranti, le urla della madri che avevano perso un figlio prima di essere giustiziate a loro volta. Nulla turbava l’animo del feroce guerriero. Era vuoto dentro. Il suo unico obiettivo ero quello di conquistare nuove terre, di estendere i proprio domini, di essere ricordato nei secoli avvenire come un grande e valoroso condottiero, un principe eccelso, chiamato con il proprio nome anche dalle generazioni future che non avrebbe conosciuto mai. Per lui non esisteva l’amore. Che senso aveva dopo tutto?
Ma, ad un certo punto della sua esistenza, qualcosa cambiò. Si rese conto che quello per cui aveva duramente lottato per tutta la vita aveva perso ogni perchè. I giorni di gloria, tanto agognati, sembravano non bastare più a fornirgli quell’orgoglio e quella soddisfazione di cui il suo grande ego aveva bisogno. Giunse ad una conclusione. Ciò per il quale valeva veramente la pena di lottare era la pace, qualla interiore, la sua.
Abbandonò i campi di battaglia. Lasciò cadere la spada, forse sua unica vera amica. Prese un nave e salpò in cerca di un posto tranquillo che appagasse ogni desiderio di calma e tranquillità alla sola vista. Quel posto, si rese conto il principe, non era fatto di terre, di mari, di montagne. Lo trovò negli occhi di una fanciulla, la più bella sulla quale avesse mai posato lo sguardo, intravista per caso, durante uno dei suoi numerosi sbarchi a terra in cerca di provviste. La sua nuova casa sarebbe stata ovunque la fanciulla avesse deciso di sostare. Calò l’àncora, definitivamente, e si stabilì nella terra di quella ragazza che sembrava ricambiare il suo amore e alla quale il torbido passato dell’uomo non importava: il Salento.
Ma per il principe innamorato e convertito ad un nuovo concetto di interazione sociale, che non prevedesse l’uso di armi e della violenza ma di pura e spassionata condivisione delle gioie della vita e del creato, non sarebbe stato semplice dimenticare il suo passato. Troppi erano stati i fili che le Parche recisero per colpa sua, troppi i ragazzi e le ragazze mandati nell’Ade, quando non sarebbe ancora dovuta arrivare la propria ora. Troppo il sangue versato ad innaffiare terre aride e povere. Gli dei dell’Olimpo, che fino a quel momento erano stati solo a guardare e che spesso non gradivano intervenire nelle faccende degli umani, decisero di scendere in campo. Troppe furono le lacrime che giunsero all’orecchio della dea Venere, che straziata dal dolore di numerosi lutti giovanili promise a se stessa che non avrebbe mai permesso che un uomo così crudele potesse condurre un’esistenza serena. Avrebbe dovuto convivere eternamente con la ricerca della felicità, senza mai poterla veramente toccare con mano.
E così, ogni volta che i giovani desideravano vedersi, una fitta nebbia gliel’avrebbe impedito. Ogni volta che avrebbero desiderato abbracciarsi, un fonte vento gliel’avrebbe impedito.
Una situazione che divenne ben presto esasperante, soprattutto per quella ragazza che, innocente delle colpe dell’amato, non poteva veder coronato il suo sogno di felicità. Contrasse quello che molti definirebbero il “mal d’amore”, e rapidamente ne morì.
Nessuna nebbia e nessun vento avrebbero a questo punto impedito al principe redento, e per la prima volta conscio di quello stato d’animo che da molti aveva sentito definire come “sofferenza”, di avvicinarsi al corpo della sua amata, privato da quel soffio che le infuse la vita. La abbracciò, la sollevò da terra e la condusse in braccio su una nave. Non sapeva ancora dove andare, ma di una cosa era certo, avrebbe sepolto la sua amata solo nel luogo che avesse ritenuto meritevole di questo grande onore.
Una volta preso il mare una corrente lo condusse su un isolotto, non molto distante da dove era partito. Approdò. Ciò che gli si presentava allo sguardo non poteva essere descritto a parole. Ogni vocabolo, ogni frase, non sarebbe stata in grado di comunicare le bellezza di quel creato. La sensazione che provò fu la stessa di quando conobbe la sua amata. Era quello il luogo. Lì avrebbe costruito un piccolo mausoleo. Lì avrebbe sepolto la sua compagna. Lì avrebbe fondato una città. La chiamò Kallí Pólis, la città bella.
Di Marco Piccinni